GABRIELE di LUCIA AMOROSI
Gabriele, aveva sempre odiato
quel nome da arcangelo, ma adesso doveva ricredersi. Aveva studiato Gabriele,
con cura maniacale. Aveva elaborato il suo piano per rubare la scena a quei
dilettanti protagonisti della cronaca nera, a quegli omuncoli che si credevano
artisti del crimine. Lui li avrebbe superati tutti, e poi li avrebbe puniti.
Finalmente il momento era arrivato, e lui se lo stava godendo. Era lì Gabriele,
proprio davanti al Pronto Soccorso del Policlinico della città, fumava una
sigaretta nel buio, con la schiena poggiata ad un albero. Mescolato a tanti
parenti in attesa di notizie. C’erano anche gli inviati dei più famosi tg
nazionali che con le telecamere cercavano morbosamente di rubare lacrime e
disperazione; nel sottofondo un frenetico via vai di ambulanze. I sintomi di
tutte le migliaia di ricoverati in codice rosso erano inconfondibili:
avvelenamento da cianuro. E non era certo l’unico ospedale in allerta: tutti
bevono l’acqua. Avrebbe voluto prendere uno di quei microfoni e urlarci dentro
“Sono stato io, ho avvelenato io l’acquedotto cittadino!” ma si sarebbe perso
la parte migliore, quella nella quale gli inquirenti barcollano nel buio e le
vittime, dopo aver pregato tutti i santi del paradiso, si rivolgono al loro angelo
custode. L’arcangelo Gabriele.