sabato 24 giugno 2017

Almanacco di Graziella Dimilito 25 giugno 2017


CANDIDO FIORE di Graziella Dimilito 25 giugno 2017

CANDIDO FIORE




Viola S. “la sfregiata”, alias Candido Fiore, guarda sogghignando i like e le richieste di appuntamento che fioccano numerose al suo pc.
Intanto affila il rasoio.
Come un rapace aspetta di incontrare l’incauta preda per vendicarsi del male ricevuto.
Avvolta nell’accappatoio, assorta in pensieri cupi, vive sola con un gatto, l’unico che non bada al suo viso deturpato, ed è sempre felice quando la vede tornare all’alba. Lui non la giudica per ciò che ha fatto durante la notte.
Era tanto dolce un tempo Viola, era la figlia che tutti avrebbero voluto, forse troppo ingenua e credulona, lei, così solare e socievole, aveva persino creduto che Luca la
picchiasse perché l’amava troppo ed era geloso di chiunque la guardasse. Fino al giorno in cui, in un impeto di rabbia aveva sfregiato il suo bel viso col rasoio. Poi fuggì e non lo vide mai più.
Le occhiate di commiserazione di amici e conoscenti la indussero a rinchiudersi in sé stessa, per tutti era diventata “Viola la sfregiata”. Il suo cuore si indurì, il desiderio di vendetta prese il sopravvento.
Il web ora le permette finalmente di vendicarsi, accalappiando incauti uomini, nei quali rivede Luca e su di loro si vendica con un preciso colpo di rasoio.
Viola, Candido Fiore, una donna sfregiata nel corpo e nell’anima

sabato 17 giugno 2017

VICTOR di Patrizia Benetti 18 giugno 2017








VICTOR di Patrizia Benetti
Alto snello, capelli corvini, occhi di ghiaccio, indossa comode calzature in memory, jeans e giubbotto nero. Inforca spesso occhiali a specchio. Ha lineamenti regolari e gradevoli ma non sorride mai e gli occhi d’acciaio incutono soggezione. È un tipo solitario, alloggia nel modesto albergo di un piccolo paese di montagna. Nessuno sa chi sia, né per quale motivo si trovi lì. C’è chi dice che sia un uomo d’affari, chi suppone che si sia appena separato dalla moglie, o che stia scappando da qualcuno o da qualcosa. È davvero bello Victor, è sulla trentina e le ragazze tentano di attaccar bottone per sapere qualcosa sul suo conto e per strappargli un sorriso. In paese mesi prima si è consumato uno strano incidente e forse Victor è lì per investigare. Una ragazza bellissima, una straniera dai capelli biondi e dagli occhi azzurri come il cielo è morta. Stava scalando la montagna in compagnia del fratello e di alcuni amici ed è caduta da un burrone. Si dice che sia stata spinta. Lucilla e la facoltosa famiglia possedevano una villa in cui trascorrevano le vacanze. Ora è deserta. Nessuno vi ha mai più abitato. Si dice che sia maledetta, che vi aleggi la tormentata anima della fanciulla. Forse era la donna di Victor e lui sta morendo di dolore, medita la vendetta. Forse è uno sbirro. Comunque sia il volto dell’uomo è una maschera d’indifferenza. Pare che niente e nessuno lo interessi. Non vuole o non può scuotersi dal torpore che lo assorbe. A quanto pare è un abitudinario. Si alza tutte le mattine alle sette in punto, si concede una sobria colazione a base di caffè nero e cereali, quindi fa un’oretta di palestra e una lunga doccia rilassante. Verso le dieci va a leggere il quotidiano al solito bar, in attesa del pranzo. Si dice abbia sempre la pagina aperta sulla cronaca nera. Il suo volto impassibile diventa a tratti rosso e corrucciato. Inarca le folte sopracciglia nere e c’è chi giura di avere visto una lacrima scendergli sulle guance abbronzate. Chi è Victor, l’affascinante sconosciuto? Cosa lo tormenta? Oggi ha preso lo skilift ed è salito con gli altri turisti. Scia divinamente. Il suo volto è rilassato, sembra divertirsi. Respira l’aria pura dei monti e si lancia senza paura verso valle. Al ritorno però si sono perse le sue tracce. Nessuno lo ha visto rientrare e non è in motel. È quasi buio. Dove si sarà cacciato? Il giorno dopo in paese non si parla d’altro. La sua macchina è nel parcheggio ma di lui nessuna nuova. Trascorrono i giorni, le settimane, i mesi. C’è chi giura di averlo visto di notte davanti alla stupenda villa disabitata. Rincorreva una ragazza dai capelli biondi. Le loro risate riecheggiavano nell’aria. Victor era felice.

Almanacco di Graziella Dimilito 18 giugno 2017


sabato 10 giugno 2017

NON E' COME SEMBRA di Ilaria agostini 11 giugno 2017



NON E’ COME SEMBRA di Ilaria Agostini

 Ormai è inevitabile. Presto i nodi verranno al pettine, e i miei scopriranno tutto. Non potrò mai ottenere la laurea. E loro, che già si preparano a festeggiare – no, non mio padre, che da uomo dedito alla Legge quale è, la considera cosa dovuta – sapranno che sono solo un bugiardo, e un codardo. Mio padre avrà la definitiva conferma per la sua più affermata intuizione: sono un inetto. Un buono a nulla. Un indegno. Come ha sempre dichiarato apertamente, lui che non commette mai errori. L’integerrimo. Il superuomo. Questa volta mia madre non potrà far nulla per dissuaderlo a tagliarmi i viveri. Addio festini con i miei pseudo-amici sanguisuga, adieu vacanze in Costa Azzurra. Dimenticatele le serate in compagnia di donne che la maggior parte dei poveri cristi possono forse vedere su qualche copertina. E tutto questo per colpa di Marie-iosonomiglioredituttivoi- Leblanque. La odio. Sì, io la odio di un odio profondo. Dal momento in cui, guardandomi con sufficienza frammista a disgusto, si è rifiutata di regalarmi quel diciotto. Atto non poi così spregevole, a quanto pare, per tutti gli altri. Anzi, molti suoi illustri colleghi mi han regalato ben più di un 18, sperando forse, ingenuamente, di comprare così i favori di mio padre. Ha ha ha. Mossa davvero inutile. Tutti, ma non lei. L’incorruttibile. L’amante del giusto. L’intransigente. Mi guarda con un piccolo cenno di scontrosa indifferenza ogni volta che, per sbaglio, incontra il mio sguardo. Come quando ero costretto a partecipare ai salotti legali istituiti da mia madre e da qualche altra moglie di illustre forense. Ero solo un bambino, mi annoiavo, mi lamentavo e mio padre non perdeva occasione per qualche insulto. Lei, una delle poche donne invitate non per via del marito, ma per propri meriti personali, se ne stava a guardare. Mi trattava già allora come fossi pattume maleodorante. Ed io la odio. E il mio odio cresce, ad ogni incontro. Da subito, sono passati sei mesi da quella bocciatura, ho iniziato a lavorare sul mio piano perfetto. La mia vendetta. Che senza Marie lo avrei già in tasca quell’inutile pezzo di carta. Che rappresenterebbe soprattutto, lo ammetto, un anelato momento di pace per la mia povera madre. Mi sono anche chiesto se la megera non avesse avuto all’epoca una relazione con mio padre, finita male. Spiegherebbe le occhiate di disgusto che mi rivolgeva allora. E l’accanimento di oggi. Se fosse stata abbandonata? Se si trattasse di vendetta verso mio padre… sì, forse il tutto avrebbe più senso… Come se a lui importasse qualcosa. Bah!  Mio padre e Marie… che come se non bastasse è anche molto bella. Meglio ancora, vendicherò anche mia madre, non solo me stesso. Marie non potrà mai sospettare che le sto per tendere un agguato, studiato e ragionato in modo eccelso. Sì hai capito bene brutta strega. Stavolta anche tu, intransigente di una megera, mi assegneresti un meritato trenta e lode. Dicevo, Madame Leblanque è bella. Ma non quella bellezza da copertina, no, qualcosa di diverso, di unico, di più profondo. Qualcosa di inspiegabile. Che far perdere il senno. Ed è proprio per questa consapevolezza che il mio cervello si è messo in moto. Ho trovato in un istante il colpevole del mio delitto. Il capro espiatorio per la mia vendetta. Amir è un indianino timido e taciturno, tutto codice e dedizione. Nessun amico, nessun parente. Da come osserva la megera ho capito subito che nell’universo dei suoi studenti è quello che ha la cotta più forte. Amir la ucciderà per passione. Ed io otterrò la mia vendetta. Ho iniziato molto tempo fa ad elaborare il mio piano. Non è stato facile incastrare tutti i tasselli, ma credo proprio che ci siamo. L’ho seguita. Ho scoperto che la megera frequenta più o meno alla luce del sole il professor Stevenson. Bella coppia di cervelloni… mi danno il voltastomaco. Cosa strana, ogni martedì i due colti piccioncini prendono una stanza all’Hilton. Si godono una cena  e poi se ne vanno in camera. Ed è proprio allora che entrerà in scena Amir. Si presenterà al concierge e chiederà la chiave elettronica della stanza di lei. E lui gliela consegnerà senza batter ciglio quella chiave. Che così io avrò disposto, per email… o meglio Marie lo avrà fatto… facendo intendere che Amir sia lì per un menàge a trois. Motivo per cui si aspetta collaborazione e massima riservatezza in merito. La lauta mancia che Ettore ha consegnato a nome della megera al receptionist dovrebbe assicurarmi che non ci saranno problemi. E non solo, Amir sarà obbligato a far registrare il suo bel documento. Amir ha la mia costituzione. Più o meno la mia forza. Tutti crederanno che sarà stato lui a far fuori i due amanti addormentati. E invece sarò stato io. Io che grazie a quell’idiota di Ettore, che lavora qui, mi sono procurato la divisa di cameriere ai piani dell’Hilton circa cinque mesi fa. Io che in cambio gli ho fornito sovente qualche bel presente. Più che altro cocaina, e di quella buona. Anche se decidessero di interrogarlo è così bruciato che avrà già rimosso ogni cosa nel giro di qualche ora. Io mi prenderò l’incarico di portare champagne ai due amanti, ben prima dell’orario del loro arrivo. Mi nasconderò nel guardaroba, pronto all’agguato. Amir aprirà la porta, loro urleranno, lui fuggirà. Tutti noteranno la scena. E questo sarà possibile perché sono circa sei mesi che mi lavoro Amir. Via email. O meglio lo fa Marie. Celine, che legge la posta della megera, in quanto sua assistente, ha una bella cotta per i mie soldi. Me la sono portata a cena e a letto, l’ho fatta fumare e bere. È stato davvero facile ottenere quella password. Da lì ho iniziato a scrivere per conto di Marie ad Amir. Ed è iniziato un carteggio che pian piano si è fatto degno di un bel romanzo rosa. Ma oggi a me interessa solo il nero. Da principio email informative, poi sempre più personali. Alla fine, oh sì, Amir deve essersela spassata alla grande… un piccolo godimento in mezzo alla catastrofe che lo sta per centrare in pieno. Sia chiaro, non sono razzista, e non ho nulla contro di lui poveretto… solo che mi serviva un idiota da sacrificare.
IL GIORNO X:
Qualcosa è andato storto… O meglio tutto sembrava filare liscio. Amir è arrivato. Hanno urlato, lui è fuggito insultando la megera per benino. Questo mi ha reso un po’ più solidale nei suoi confronti, insomma ho iniziato a dispiacermi per lui. Quando dal guardaroba sono sgusciato nella notte, che i due si erano addormentati – e senza neanche mezza effusione… cosa che, lo ammetto, mi è sembrata ben strana – ho tirato fuori il mio cavo in fil di ferro. Già mi pregustavo lo sguardo di terrore della megera stretta nel suo cappio mortale. E invece, mi sono ritrovato Amir addosso, un piede sulla testa e mani ammanettate dietro la schiena. Amir e il suo sguardo di cinico trionfo che non gli avevo mai visto prima… altrimenti col cavolo che lo avrei scelto! Voglio il mio avvocato. Sono fottuto. Di tanti imbecilli che girano all’Università, io proprio Amir dovevo scegliere… Amir l’nfiltrato, Amir lo specialotto, che … no, non era lì per me inizialmente. Stava indagando, a sentir lui, su una vicenda che vede l’Ateneo immischiato in questioni scabrose di esami comprati, favoritismi e mazzette … è stato proprio lui a dirmelo, e questo suo raccontare, lo ha reso molto molto allegro. I suoi occhi erano sprezzanti. E anche quelli di mio padre di lì a poche ore. Quel piccolo strafottente Sandokan deve aver capito subito che c’era qualcosa sotto già alla prima email. Un bel colpo di fortuna. Un caso risolto prima del delitto. L’aspirante assassino che ti viene a bussare alla porta per raccontarti ogni cosa…. Ora Amir è un eroe. Ed io, come direbbe mio padre, mi merito questa ennesima bocciatura. Ma almeno sarà l’ultima. Voglio un avvocato, ma non mio padre ve ne prego.
EPILOGO:
Sono qui che aspetto il mio avvocato. Ammanettato a questo tavolo. Lo specchio. iuuuhuuu guardate che lo so che siete lì dietro, la guardo la tv, sapete? Si apre la porta. Marie?… no… Mi si siede di fronte. Non ho coraggio di guardarla, voglio il mio avvocato, ho chiesto il mio avvocato…
“Sono io il tuo avvocato”
“Cosa?”
e per la prima volta la guardo davvero. Ripercorro ogni istante. Capisco ogni cosa. Piango tutto il pianto che non ho potuto versare nella mia infanzia e negli anni a venire. Capisco che lo sguardo di disgusto non era verso di me, ma verso mio padre. Per me c’è sempre stata solo pietà.
“Non ho potuto provare la gioia della maternità” mi dice “non potevo sopportare l’inettitudine con cui i tuoi ti stavano insegnando, o meglio non ti stavano insegnando a diventare un uomo. Mi dicevo che se quella fortuna fosse capitata a me, io ti avrei dato tutto. Non i soldi. Ma dedizione, attenzione, amore. Se sono qui è perché l’ho visto con i miei occhi che tu non hai avuto nulla di tutto questo. Se non ti ho promosso con un diciotto è perché io in te ho sempre creduto… Non avevo capito quanto male ti avessero fatto fino al giorno in cui hai… hai cercato di uccidermi”.
“…Io…”
“Ascolta, possiamo tentare la semi-infermità. Passerai un bel po’ di tempo qui, ma uscirai in tempo per rifarti una vita. Per viverne una degna di questo nome intendo. Nel mentre sei qui, hai tanto tempo per studiare, quello che vuoi, se non ami la Giurisprudenza puoi fare altro… predisporrò delle sedute di psicanalisi… ”
I suoi occhi mentre parla sono bellissimi. Lucidi. Ha lo sguardo risoluto e tenero. Lo sguardo e la dignità  di una madre. Mai pentimento è stato più reale.
“…Io…”
“Lo so. Spesso non è come sembra”.

Almanacco di Graziella Dimilito 11 giugno 2017


sabato 3 giugno 2017

Daniele Capecchi IL MATTO 4 giugno 2017



IL MATTO di Daniele Capecchi


Stava lì, come ogni giorno, seduto sulla riva a guardare quell’infinita distesa d’acqua in movimento, perso in pensieri che nessuno avrebbe potuto indovinare. Era una di quelle persone dall’età indefinibile: non molto alto ma ben piazzato e con capelli ancora neri che ben si addicevano al colorito olivastro e agli occhi scuri. I suoi modi schivi, nessuno l’aveva mai sentito parlare, contrastavano con l’allegra confusione che a ogni ora pervadeva il campeggio e avevano fatto nascere più di un domanda sul suo conto.
Noi ragazzi non ci mettemmo molto a chiamarlo “il matto” e, del resto, come avresti potuto definire un tipo che non parla mai, che ogni mattina esce prestissimo dalla sua tenda per andare al mare e passa tutto il giorno da solo, seduto nel solito posto, a contemplarne l’immensità?
Le mamme raccomandavano ai piccoli di stargli alla larga ed i padri ne parlavano apertamente definendolo “un po’ tocco e, forse, neanche tanto normale”, accompagnando la frase con una strizzatina d’occhio.
Più di una volta ci eravamo avvicinati di nascosto alla sua piazzola, la numero 101, ma, con grande delusione, non avevamo mai visto niente di strano: o non c’era, o si dedicava a fare pulizia, o a prepararsi da mangiare.
Spillo era uno tosto e non gli ci era voluto molto per assicurarsi il ruolo di capo della piccola banda che riempiva quei pigri giorni d’estate con giochi e scherzi di ogni tipo. Se dalle docce spariva l’acqua mentre tutti erano insaponati, se alle chiavi dei bungalow venivano scambiate le targhette in modo che nessuno potesse più entrare in casa e se una filata di mutande e reggiseni garriva al vento al posto della bandiera italiana sull’alto pennone del campeggio, non ci voleva molta fantasia per scoprire l’autore delle bravate.
Quel giorno, durante il pranzo, gli era stato proibito per l’ennesima volta di andare al mare prima delle quattro e, come al solito, gli avevano fatto una testa così sui pericoli della congestione.
A lui venivano a dire certe cose?... A lui, che nuotava come un delfino e che stava sott’acqua più di tutti?
Appena fu certo che tutti dormissero sgattaiolò via, inoltrandosi in quel caldo pomeriggio d’estate. Con poche energiche pedalate raggiunse la spiaggia, lasciò cadere la bici, si tolse la maglietta e, obbedendo al richiamo delle infinite scaglie d’argento che luccicavano sulla superficie, si tuffò in acqua. Con la coda dell’occhio aveva intravisto il matto seduto al solito posto, ormai talmente parte del paesaggio da risultare quasi invisibile.
Oltrepassò di slancio il limite delle boe, godendo del brivido dell’ennesima trasgressione, e si fermò solo quando gli ombrelloni non furono che macchie colorate.
Fu un attimo!
Un’improvvisa vampa di calore lasciò il posto ad una lama di freddo che gli tolse il respiro. Cercò di nuotare ma gli arti non rispondevano. Allora provò a urlare, ma si trovò la bocca piena di quell’acqua salata che prima gli era amica e adesso gli stringeva la gola in una morsa.
Annaspò per qualche istante di terrore, poi un velo nero gli calò sugli occhi e si sentì sprofondare sempre più giù…
Il signore che portava a spasso il cane raccontò di non aver mai visto qualcuno scattare così, tuffarsi senza provocare spruzzi e nuotare sott’acqua a quella velocità. In pochi attimi, il matto aveva oltrepassato le boe e riguadagnato la riva, tenendo Spillo bene fuori dall’acqua senza alcuno sforzo apparente. Lo adagiò con dolcezza sulla battigia e, con fare esperto, gli fece espellere l’acqua dai polmoni permettendogli, tra attacchi di tosse e conati di vomito, di respirare di nuovo.
Subito, in quell’atmosfera i cui colori avevano perso saturazione, si formò un capannello di gente che voleva vedere, curiosare, sincerarsi, congratularsi ma, approfittando della ressa, il matto si era dileguato in silenzio, come sempre.
Nella cameretta di Spillo, al pronto soccorso, il viavai era incessante; tutti volevano vederlo, toccarlo, farlo sorridere finchè lui, esausto, si addormentò.
Il mattino dopo, un corteo di gente con il padre di Spillo in testa si recò a trovare il matto per manifestargli gratitudine e ammirazione. Molti cercavano, in silenzio, le parole per scusarsi per come lo avevano sempre deriso e giudicato male ma, arrivati sul posto, si ritrovarono completamente disorientati: la piazzola numero 101 non si trovava.
Lungi dall’arrendersi, sciamarono verso la direzione, dove la risposta che ottennero fu di quelle indimenticabili.
“Ma… volete scherzare? Questo campeggio ha sempre avuto solo 100 piazzole!”.