sabato 29 luglio 2017

IL VEDOVO di Luca Oggero 30 luglio 2017



IL VEDOVO   di Luca Oggero
Nella camera ardente la gente si avvicendava nell’avvicinarsi alla bara aperta e dare l’ultimo saluto alla donna distesa nel cofano di legno. Poi a turno stringevano la mano all’uomo che stava in piedi di fianco alla cassa oppure lo cingevano in un breve abbraccio soffiandogli nell’orecchio le parole “Condoglianze, Guido”, seguite da una varietà a random delle frasi di circostanza tipiche di momenti come quello:
“Guarda come l’hanno composta bene, sembra quasi che sorrida”
“Eeh, prima o poi ci tocca a tutti…”
“Dai, fatti forza, almeno ha smesso di soffrire”
“Era davvero una brava donna, mi spiace tanto per te, Guido. Chissà quanto ti mancherà”.
Quando qualcuno lo apostrofava con quest’ultima frase, Guido si sforzava di tenere il contegno di un neo-vedovo e col volto contrito annuiva in silenzio ma dentro di sé avrebbe voluto rispondere:
“No, ti sbagli. Non era affatto una brava donna e non mi mancherà per niente. Era una vecchia megera logorroica, possessiva e autoritaria che per trent’anni mi ha comandato a bacchetta, mi ha impedito di avere una vita sociale, mi ha controllato in ciò che mangiavo, in come mi vestivo, in ogni cosa facessi svirilizzandomi totalmente e mi ha reso la vita un inferno. Ringrazio il Signore che se la sia portata via e mi spiace soltanto che non se la sia portata via prima”.
La gente venuta per recitare il rosario adesso se ne era andata e Guido, rimasto solo di fianco alla salma di Cinzia, si sentì finalmente sollevato dal dover recitare la parte del marito addolorato per la perdita dell’amata mogliettina e decise di uscire fuori a fumarsi uno dei suoi amati toscanelli.
Guardò in faccia la moglie morta e con un’aria quasi di sfida disse a mezza voce:
“Io esco a fumare”.
Il silenzio che gli rispose gli strappò dal volto un mezzo sorriso.
“Ah, non dici niente ora, eh?”
La sua passione per i toscanelli era stata da sempre uno degli argomenti di maggior attrito tra lui e la moglie. Non solo Cinzia non aveva mai sopportato l’odore dei sigari, costringendolo a uscire sul balcone a fumare anche durante gli inverni più rigidi ma, preoccupata per la salute del marito, ogni volta che questi usciva a fumare un sigaro, gli diceva: “Poi quando ti prendi il cancro non venirti a lamentare con me! Io te l’ho sempre detto che quei cosi ti porteranno presto alla tomba!”
“Chi è, cara, che è finito alla tomba?” pensò Guido sarcastico mentre accendeva il toscano nel cortile della sala mortuaria, riparando con la mano il fiammifero dal tiepido vento di settembre.
Era il primo sigaro che poteva fumare da anni a questa parte senza che nessuno sporcasse il suo piacevole rituale con frasi piene di iattura e lui se lo gustò come mai aveva fatto prima. Ogni boccata sapeva di ritrovata libertà, a ogni tiro era come se un piccolo peso si staccasse dalla sua schiena per renderlo più leggero.
Finito il sigaro rientrò nella camera ardente, prese una sedia e si sistemò accanto alla salma iniziando a parlarle:
“Mamma mia Cinzia, che bontà il toscanello che mi sono appena fumato! Come? Non ti piace l’odore dei toscanelli? E che credi che non lo sappia? Mi hai fatto una testa così per tutta la vita sulla “puzza tremenda di quei cosi”. Beh, amore, sai che ti dico? Da domani quella puzza tremenda sarà l’odore che ci sarà ogni giorno in casa. Sì, nella tua bella casa a cui tenevi così tanto, nella quale non ho mai potuto appendere un quadro che mi piacesse, scegliere un mobile o la tinta da dare, perché tutte le mie idee le hai sempre bocciate. Ovviamente adesso le cose andranno un po’ diversamente… Ti ricordi quella volta che portai a casa quel quadro col mare in tempesta e le due barche che cercano di sfidare la potenza degli elementi? Ti ricordi che mi vietasti in tutti i modi di poterlo appendere in casa perché secondo te era una crosta inguardabile e ti vergognavi che io avessi così poco gusto estetico? Beh, cara, ho una notizia da darti: domani quel quadro io lo appendo. E indovina un po’ dove ho intenzione di piazzarlo? Proprio in camera nostra, sopra il letto, al posto della foto del nostro matrimonio! Non sei contenta? No? E allora perché non me lo dici? Ah, già! Sei morta… E io ora cosa farò senza di te, mia dolce sposa? Dunque, vediamo un po’… Penso che per prima cosa, quando uscirò di qui, andrò a cercare una puttana e mi farò una bella scopata, cosa che tu da almeno dieci anni a questa parte non mi hai più permesso di fare. Quante volte hai respinto il mio braccio che ti cercava, quante volte avevi mal di testa o eri troppo stanca o mi dicevi che puzzavo di sigaro… Ah, sì! Voglio farmi una trombata come Dio comanda alla faccia tua e del mal di testa. Poi, siccome il sesso mette appetito, andrò al ristorante e mi mangerò un bel fritto misto con un litro di vino bianco. Mica la merda di verdure bollite che mi obbligavi a mangiare tu perché secondo te ero troppo grasso… No, no, un bel fritto di pesce bello unto e dopo cena due begli ammazzacaffè. Uno alla mia salute e l’altro alla tua, che mi hai sempre vietato i liquori. E poi per il futuro si vedrà… Due cose soltanto sono certe: la prima è che voglio gettare via tutto ciò che in casa hai deciso tu di mettere, cioè praticamente ogni cosa, e lo sostituirò con cose di mio gusto… Anzi, meglio ancora, con cose che sono certo a te non sarebbero piaciute. Che ne dici?”
Guardò la moglie che, ovviamente, non disse niente.
“Sai che discutere con te da morta non è affatto male? Quindi, ti dicevo, la prima cosa è questa. La seconda, tieniti forte cara, è che appena ti avrò sotterrata chiederò a Nunzia di fidanzarci. Sì, la tua cara amica Nunzia! Perché è vedova come me, è una donna dolcissima che ha sempre capito la vita di merda che mi facevi fare e mi è sempre stata di gran conforto con la sua presenza discreta e le sue parole gentili quando per colpa tua mi sentivo un verme in gabbia”.
Due dipendenti dell’obitorio sostavano sulla porta d’ingresso. Uno si avvicinò a Guido e gli posò una mano sulla spalla.
“Signore, le chiedo scusa ma dobbiamo chiudere la camera. Potrà tornare da sua moglie domattina”.
“Certo, capisco…”.
Guido si alzò dalla sedia e si chinò sulla bara della moglie, appoggiandole un leggero bacio sulla fronte.
“A domani, tesoro mio…”.
Poi, salutando con un cenno del capo i due uomini nella sala, uscì nella notte domandandosi su quale strada cittadina ci fossero le puttane più belle.
“Hai visto come le parlava?” domandò uno dei due uomini all’altro.
“Sì, le ha fatto un lungo discorso, come se lei fosse ancora viva…”
“Poveraccio, doveva amarla veramente tantissimo…”




Almanacco di Graziella Dimilito 30 luglio 2017


sabato 22 luglio 2017

UN UOMO FORTUNATO di Angelo Fabbri 23 luglio 2017






UN UOMO FORTUNATO di Angelo Fabbri
Mi guardo le mani: sono sporche di sangue.
Maledizione! Bestemmio in silenzio, mi guardo intorno. Buio, appena un lampione una cinquantina di metri più in là. Abbasso gli occhi, lo vedo ai miei piedi, il coltello che ancora spunta dalla carotide.
Istintivamente faccio per chinarmi, mi viene da estrarre il coltello, pulirmi le mani sulla sua giacca, eliminare questa lordura. Ma per fortuna l’esperienza e l’addestramento intervengono ad aiutarmi: il sangue è sgorgato come un fiume, colpa del fatto che lui si sia girato, o forse della mia imprecisione, ma è solo suo. Però se mi pulisco posso lasciare tracce del mio DNA, errore. Inoltre il cuore potrebbe battere ancora, il coltello in parte fa da tampone. Quanto sangue è uscito? Difficile dirlo al buio e con il selciato bagnato di pioggia, meglio stare calmi e aspettare qualche minuto.
Sono calmo, le mie pulsazioni sono inchiodate a 72, come al solito. Il fatto che senta l’impulso di allontanarmi è normale istinto di conservazione, ma è proprio quello che ti frega. Che ha fregato tanti miei colleghi.
Chi era quest’uomo? Sì, nella busta oltre ai codici per sbloccare i soldi c’erano le solite informazioni, ma voglio dire: chi era veramente?
Aveva una famiglia, dei figli, dei progetti per il futuro: poteva immaginare che tutto sarebbe finito così, in questo vicolo buio, in una piovosa notte d’ottobre? No, certamente, ma forse temeva qualcosa. Magari aveva un’amante, o faceva operazioni illecite…. Di sicuro aveva dei nemici, altrimenti perché mi avrebbero pagato per eliminarlo? Ma nel mio lavoro si forniscono solo le informazioni essenziali, quelle utili per portarlo a termine, il resto non interessa e non deve interessare. Non solo sarebbero inutili, ma anche pericolose, potrebbero portarti a non essere sufficientemente freddo, impersonale.
Rido: io che empatizzo con le mie vittime! Assurdo. Sono pezzi di carne morta che ancora camminano, e in fondo qualche motivo per farsi ammazzare ce l’'avranno pure, contrariamente ai vitelli e agli agnelli, e se non lo conosco potrei leggerlo domani sui giornali. Ma non mi interessa, non lo faccio mai.
Sospiro, guardo l’orologio. Sono un’ombra tra le ombre. Riprende a piovere, sento l’acqua nelle scarpe, nonostante la suola di gomma. Faccio un passo indietro: se un rivolo d’acqua me le contamina con il sangue sarò costretto a gettarle via, e sono delle Scamardo originali da cinquecento euro.
Il terreno è in leggera pendenza: faccio il giro e mi porto a monte del cadavere. Mi chino, questa volta sì, ed estraggo con delicatezza la lama dal lato della gola. Stavolta escono solo poche gocce di sangue. Sorrido soddisfatto.
«Idiota», penso, «ti sei voltato di scatto e hai fatto un bel casino! Per fortuna adesso è tutto a posto».
Infilo il coltello nel suo sacchetto di plastica, da cui lo tirerò fuori solo per sterilizzarlo, metto tutto dentro un altro sacchetto per sicurezza e me lo infilo nella tasca del soprabito.
Percorro pochi metri, con circospezione, mi guardo intorno ed esco dal vicolo. Attraverso alcune strade, sempre dirigendomi verso il centro, poi mi infilo nella metro.
Striscio vicino ad una ragazza ed il contatto mi provoca una involontaria erezione. Lei sembra quasi accorgersene, e mi osserva incuriosita, poi decide di ignorarmi e si volta dall’altra parte.
Le porte si chiudono, il treno si mette in movimento. Sento sul volto l’aria fresca della sera, un sollievo. Dovrò tenere la parrucca e il resto del travestimento ancora per un po’, maledizione anche alle telecamere di sorveglianza!
Una volta era più facile, meno problemi. Anche più poetico, creativo:
«Jack Lo Scalzo!» gridavo. Lui si voltava e BANG! BANG!. E nessuno aveva visto niente.
MI stringo nella spalle: i tempi cambiano e il mondo è una tavola non scritta.
Ho un lavoro in cui sono bravo e che mi rende bene: sono un uomo fortunato

Almanacco di Graziella Dimilito 23 luglio 2017


sabato 15 luglio 2017

WALTER E VERA di Graziella Dimilito 16 luglio 2017



WALTER


Uscì di casa coi nervi a fior di pelle. Quella stupida donna! Non gli dava mai retta, non gli ubbidiva, eppure gliele suonava di santa ragione, praticamente ogni giorno. Ieri però, aveva passato il segno! L’aveva denunciato, sì, l’aveva denunciato per maltrattamenti nei confronti suoi e dei due figli. Fortunatamente si era risolto tutto con un ammonimento da parte della polizia:
 “Può tornare a casa per questa volta, ma attenzione, la terremo d’occhio, se dovesse capitare di nuovo non saremo così magnanimi”.
 Bla bla bla… che ne sapevano loro di quanto era difficile farsi rispettare e ubbidire dalla propria famiglia, mai mostrarsi deboli.
Questi erano i pensieri che affollavano la mente di Walter Singer mentre si recava al lavoro. Anche quella mattina aveva dato una bella lezione a Vera, non aveva stirato la sua camicia preferita… inaudito!
«Ora vai a denunciarmi se hai il coraggio, giuro che ti ammazzo!»  Le aveva urlato.
I due bambini si erano svegliati, terrorizzati ascoltavano le grida del padre e il pianto della madre, senza poter fare null’altro che piangere in silenzio.
Ben presto Walter Singer si sarebbe pentito amaramente del suo comportamento…


VERA

Vera, moglie di Walter, dopo aver consolato i bambini, li accompagnò a scuola, poi entrò al supermarket per fare un po’ di spesa. Doveva stare molto attenta agli acquisti che faceva, il marito le centellinava il denaro. Lo aveva denunciato  sperando che la giustizia lo avrebbe punito e allontanato dalla famiglia, invece tutto era tornato come prima anzi, peggio di prima. Oltre ad alzare le mani su di lei e i bambini per un nonnulla, la minacciava continuamente, impugnava un coltello da cucina e glielo appoggiava al collo o al petto terrorizzandola. Poi rideva sguaiatamente e usciva sbattendo la porta. Vera si domandava come avesse potuto ridursi così, era diventata una schiava – resisto per i bambini – ripeteva fra sé, ma sapeva perfettamente che non era così. Anche i bambini stavano soffrendo quanto lei. Il vero motivo era la paura… sì, la maledetta paura che le toglieva le forze e la volontà. Ancora non riusciva a credere di aver avuto il coraggio di andare alla polizia, visto come erano andate le cose non lo avrebbe fatto una seconda volta. Assorta nei suoi tristi pensieri, cercava tra gli scaffali i prodotti da acquistare, quando una voce di uomo dietro di lei la fece trasalire:
«Signora non si volti, non gridi, non dica niente».
Oh mio Dio, una rapina – pensò Vera col cuore in tumulto. Restò immobile aspettando che il ladro le strappasse la borsa. Invece la voce riprese a parlare:
«Non abbia paura signora, non voglio farle alcun male. Conosco la sua situazione, so che suo marito Walter è un violento, che tormenta continuamente lei e i bambini. So anche che lo ha denunciato, non si aspetti nulla dalla polizia. Ne hanno a bizzeffe di casi anche peggiori del suo».
«Ma… chi è lei?» chiese Vera senza girarsi.
«Non faccia domande, mi ascolti e basta».
Vera sentiva il fiato dell’uomo sul collo, ma non aveva più paura, non sapeva perché, ma sentiva che non era lì per farle del male. L’uomo continuò:
«Le prometto che suo marito non la maltratterà più, mi ha capito?»
«Ma…»
«Mi ha capito?» – ripetè con voce ferma.
«» – rispose Vera in un soffio.
«Bene, ora me ne vado. Conti fino a dieci poi continui a fare la sua spesa».
Quella sera Vera aspettò inutilmente il marito per cena. Lo squillo del telefono la fece sobbalzare:
«Signora Singer?»
«Sì?»…

 Walter Singer scese nel parcheggio sotterraneo per recuperare la sua auto e tornare a casa. Aveva lavorato fino a tardi, era indietro con le pratiche. Il parcheggio era deserto, affrettò il passo, era stanco e aveva fame. Improvvisamente il rombo assordante di un motore lo bloccò, come dal nulla sbucò da dietro un pilone di cemento un’auto che, a tutta velocità, puntava dritto su di lui. Non si mosse di un centimetro, la sorpresa lo aveva paralizzato, fu investito in pieno e sbalzato di un centinaio di metri, fino a fermarsi sbattendo contro una transenna di ferro.

Ora Vera guardava suo marito, immobile nel letto d’ospedale, attaccato alle macchine che lo tenevano in vita, non lo aveva mai visto così inerme. Le parve di provare una specie di sollievo. Il medico le si avvicinò, aveva un’espressione grave:
«Signora Singer, purtroppo suo marito versa in gravissime condizioni, è in coma, disperiamo di poterlo salvare, ma ci proveremo».
Vera annuì e ringraziò il dottore. Mentre tornava a casa, cominciò a realizzare che non vi avrebbe trovato “lui”, non avrebbe dovuto preoccuparsi se la cena non era perfetta, se la casa non era in ordine, se il vino non era abbastanza fresco, nulla, non doveva preoccuparsi di nulla. Si ritrovò a sorridere e a pensare che non vedeva l’ora di andare dalla vicina, alla quale aveva affidato i bambini, e portarseli a casa. Dopo aver ringraziato di cuore la vicina di casa, ed aver ascoltato con pazienza le sue parole di conforto, tornò a casa con i figli.

«Mamma – chiese il piccolo Jim, papà non viene?»
«No tesoro, è all’ospedale, ha avuto un incidente». I bambini accolsero la notizia con indifferenza. Mangiarono in serenità, poi Vera li aiutò a lavarsi, li mise a letto, rimboccò loro le coperte e li baciò sulla fronte. Non avrebbero più sofferto, ne era certa, non lo avrebbe più permesso. Si ritrovò a pensare all’uomo del supermarket:
«Non la maltratterà mai più» – le aveva detto.
Coincidenza? Si sentiva molto confusa, ma non poteva negare che stava bene, molto bene senza Walter, questo le bastava, non voleva sapere altro. Alcuni giorni dopo la chiamarono dall’ospedale, le dissero che il marito era in coma irreversibile.
«Signora Singer, suo marito vive solo grazie alle macchine, l’encefalogramma è piatto, non si risveglierà più. Ora sta a lei decidere cosa vuole fare».
«Intende dire “staccare la spina” vero?»
«Sì signora, è così».
Vera chiese di poter riflettere un po’ prima di decidere, si ritirò in una stanzetta vuota, chiuse gli occhi, rivide gli anni terribili vissuti col marito, le botte, le umiliazioni, la paura per sé e per i bambini. – Ora sei nelle mie mani Walter – disse fra sé – peccato che tu non sia in grado di capirlo.
Chiamò il medico e disse: «Procedete».
Un clic, e Walter sparì per sempre dalla sua vita.

Almanacco di Graziella Dimilito 16 luglio 2017


sabato 8 luglio 2017

Lucia Amorosi KHA-SOBEK del 9 luglio 2017





KHA SOBEK di Lucia Amorosi

Prima di tutto ciò mi chiamavo Kha, un nome comune qui nelle Due Terre.
Da qualche stagione però questo è mutato in Kha-Sobek, e sono l’unico credo oggi a glorificarmi di questo nome, già perché il significato è proprio “gloria del dio Sobek”;
ma sarà meglio che mi spieghi. Sono un uomo pingue di quarant’anni, mi dicono dal volto gioioso e simpatico. Curato nell’aspetto, amo mantenere ben lucido il cranio rasato e lindo il gonnellino bianco. Adoro sorridere alla gente e salutare con affetto chiunque mi conosca, e vi assicuro che in questo tratto del Nilo mi conoscono tutti. Sono nato accanto al tempio del dio Sobek, quello dalle sembianze del sacro coccodrillo, e ho giocato da bambino tra i palmeti di datteri e i fiori di loto. Per anni ho assistito mio padre che svolgeva la professione di imbalsamatore, principalmente di coccodrilli. Dovete sapere infatti che sono moltissimi i nobili facoltosi che amano offrire al tempio mummie del sacro rettile, che li preservino dalla malasorte e gli assicurino un passaggio facilitato per l’aldilà. Ho poi assistito inerme alle cacce sul Nilo, svolte da tanti giovani eroi che per un lauto guadagno rischiavano la vita tra le fauci delle loro prede. Quanta gioventù ho visto morire! Quanti pianti ho dovuto consolare!
Eccomi, io sono quello che ha trovato la soluzione, quello che ha asciugato le lacrime.
Ho ottenuto dal governatore la concessione di un tratto di palude e ho impiantato un allevamento di coccodrilli, così che gli offerenti possano finalmente donarne una mummia, da me sapientemente imbalsamata, senza avere sulla coscienza un giovane cacciatore. Immensa è la gloria che mi ha reso questa attività, e che ha visto ampliare il mio favore verso la popolazione; mi adorano al punto tale da cambiarmi il nome. Sì perché oltre a scongiurare tante morti premature ho risolto il problema della criminalità locale.
Come? Ovvio, qualcosa i miei amati coccodrilli dovranno pur mangiare! Eccomi, sono la Gloria del dio Sobek!
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Almanacco di Graziella Dimilito 9 luglio 2017