sabato 10 giugno 2017

NON E' COME SEMBRA di Ilaria agostini 11 giugno 2017



NON E’ COME SEMBRA di Ilaria Agostini

 Ormai è inevitabile. Presto i nodi verranno al pettine, e i miei scopriranno tutto. Non potrò mai ottenere la laurea. E loro, che già si preparano a festeggiare – no, non mio padre, che da uomo dedito alla Legge quale è, la considera cosa dovuta – sapranno che sono solo un bugiardo, e un codardo. Mio padre avrà la definitiva conferma per la sua più affermata intuizione: sono un inetto. Un buono a nulla. Un indegno. Come ha sempre dichiarato apertamente, lui che non commette mai errori. L’integerrimo. Il superuomo. Questa volta mia madre non potrà far nulla per dissuaderlo a tagliarmi i viveri. Addio festini con i miei pseudo-amici sanguisuga, adieu vacanze in Costa Azzurra. Dimenticatele le serate in compagnia di donne che la maggior parte dei poveri cristi possono forse vedere su qualche copertina. E tutto questo per colpa di Marie-iosonomiglioredituttivoi- Leblanque. La odio. Sì, io la odio di un odio profondo. Dal momento in cui, guardandomi con sufficienza frammista a disgusto, si è rifiutata di regalarmi quel diciotto. Atto non poi così spregevole, a quanto pare, per tutti gli altri. Anzi, molti suoi illustri colleghi mi han regalato ben più di un 18, sperando forse, ingenuamente, di comprare così i favori di mio padre. Ha ha ha. Mossa davvero inutile. Tutti, ma non lei. L’incorruttibile. L’amante del giusto. L’intransigente. Mi guarda con un piccolo cenno di scontrosa indifferenza ogni volta che, per sbaglio, incontra il mio sguardo. Come quando ero costretto a partecipare ai salotti legali istituiti da mia madre e da qualche altra moglie di illustre forense. Ero solo un bambino, mi annoiavo, mi lamentavo e mio padre non perdeva occasione per qualche insulto. Lei, una delle poche donne invitate non per via del marito, ma per propri meriti personali, se ne stava a guardare. Mi trattava già allora come fossi pattume maleodorante. Ed io la odio. E il mio odio cresce, ad ogni incontro. Da subito, sono passati sei mesi da quella bocciatura, ho iniziato a lavorare sul mio piano perfetto. La mia vendetta. Che senza Marie lo avrei già in tasca quell’inutile pezzo di carta. Che rappresenterebbe soprattutto, lo ammetto, un anelato momento di pace per la mia povera madre. Mi sono anche chiesto se la megera non avesse avuto all’epoca una relazione con mio padre, finita male. Spiegherebbe le occhiate di disgusto che mi rivolgeva allora. E l’accanimento di oggi. Se fosse stata abbandonata? Se si trattasse di vendetta verso mio padre… sì, forse il tutto avrebbe più senso… Come se a lui importasse qualcosa. Bah!  Mio padre e Marie… che come se non bastasse è anche molto bella. Meglio ancora, vendicherò anche mia madre, non solo me stesso. Marie non potrà mai sospettare che le sto per tendere un agguato, studiato e ragionato in modo eccelso. Sì hai capito bene brutta strega. Stavolta anche tu, intransigente di una megera, mi assegneresti un meritato trenta e lode. Dicevo, Madame Leblanque è bella. Ma non quella bellezza da copertina, no, qualcosa di diverso, di unico, di più profondo. Qualcosa di inspiegabile. Che far perdere il senno. Ed è proprio per questa consapevolezza che il mio cervello si è messo in moto. Ho trovato in un istante il colpevole del mio delitto. Il capro espiatorio per la mia vendetta. Amir è un indianino timido e taciturno, tutto codice e dedizione. Nessun amico, nessun parente. Da come osserva la megera ho capito subito che nell’universo dei suoi studenti è quello che ha la cotta più forte. Amir la ucciderà per passione. Ed io otterrò la mia vendetta. Ho iniziato molto tempo fa ad elaborare il mio piano. Non è stato facile incastrare tutti i tasselli, ma credo proprio che ci siamo. L’ho seguita. Ho scoperto che la megera frequenta più o meno alla luce del sole il professor Stevenson. Bella coppia di cervelloni… mi danno il voltastomaco. Cosa strana, ogni martedì i due colti piccioncini prendono una stanza all’Hilton. Si godono una cena  e poi se ne vanno in camera. Ed è proprio allora che entrerà in scena Amir. Si presenterà al concierge e chiederà la chiave elettronica della stanza di lei. E lui gliela consegnerà senza batter ciglio quella chiave. Che così io avrò disposto, per email… o meglio Marie lo avrà fatto… facendo intendere che Amir sia lì per un menàge a trois. Motivo per cui si aspetta collaborazione e massima riservatezza in merito. La lauta mancia che Ettore ha consegnato a nome della megera al receptionist dovrebbe assicurarmi che non ci saranno problemi. E non solo, Amir sarà obbligato a far registrare il suo bel documento. Amir ha la mia costituzione. Più o meno la mia forza. Tutti crederanno che sarà stato lui a far fuori i due amanti addormentati. E invece sarò stato io. Io che grazie a quell’idiota di Ettore, che lavora qui, mi sono procurato la divisa di cameriere ai piani dell’Hilton circa cinque mesi fa. Io che in cambio gli ho fornito sovente qualche bel presente. Più che altro cocaina, e di quella buona. Anche se decidessero di interrogarlo è così bruciato che avrà già rimosso ogni cosa nel giro di qualche ora. Io mi prenderò l’incarico di portare champagne ai due amanti, ben prima dell’orario del loro arrivo. Mi nasconderò nel guardaroba, pronto all’agguato. Amir aprirà la porta, loro urleranno, lui fuggirà. Tutti noteranno la scena. E questo sarà possibile perché sono circa sei mesi che mi lavoro Amir. Via email. O meglio lo fa Marie. Celine, che legge la posta della megera, in quanto sua assistente, ha una bella cotta per i mie soldi. Me la sono portata a cena e a letto, l’ho fatta fumare e bere. È stato davvero facile ottenere quella password. Da lì ho iniziato a scrivere per conto di Marie ad Amir. Ed è iniziato un carteggio che pian piano si è fatto degno di un bel romanzo rosa. Ma oggi a me interessa solo il nero. Da principio email informative, poi sempre più personali. Alla fine, oh sì, Amir deve essersela spassata alla grande… un piccolo godimento in mezzo alla catastrofe che lo sta per centrare in pieno. Sia chiaro, non sono razzista, e non ho nulla contro di lui poveretto… solo che mi serviva un idiota da sacrificare.
IL GIORNO X:
Qualcosa è andato storto… O meglio tutto sembrava filare liscio. Amir è arrivato. Hanno urlato, lui è fuggito insultando la megera per benino. Questo mi ha reso un po’ più solidale nei suoi confronti, insomma ho iniziato a dispiacermi per lui. Quando dal guardaroba sono sgusciato nella notte, che i due si erano addormentati – e senza neanche mezza effusione… cosa che, lo ammetto, mi è sembrata ben strana – ho tirato fuori il mio cavo in fil di ferro. Già mi pregustavo lo sguardo di terrore della megera stretta nel suo cappio mortale. E invece, mi sono ritrovato Amir addosso, un piede sulla testa e mani ammanettate dietro la schiena. Amir e il suo sguardo di cinico trionfo che non gli avevo mai visto prima… altrimenti col cavolo che lo avrei scelto! Voglio il mio avvocato. Sono fottuto. Di tanti imbecilli che girano all’Università, io proprio Amir dovevo scegliere… Amir l’nfiltrato, Amir lo specialotto, che … no, non era lì per me inizialmente. Stava indagando, a sentir lui, su una vicenda che vede l’Ateneo immischiato in questioni scabrose di esami comprati, favoritismi e mazzette … è stato proprio lui a dirmelo, e questo suo raccontare, lo ha reso molto molto allegro. I suoi occhi erano sprezzanti. E anche quelli di mio padre di lì a poche ore. Quel piccolo strafottente Sandokan deve aver capito subito che c’era qualcosa sotto già alla prima email. Un bel colpo di fortuna. Un caso risolto prima del delitto. L’aspirante assassino che ti viene a bussare alla porta per raccontarti ogni cosa…. Ora Amir è un eroe. Ed io, come direbbe mio padre, mi merito questa ennesima bocciatura. Ma almeno sarà l’ultima. Voglio un avvocato, ma non mio padre ve ne prego.
EPILOGO:
Sono qui che aspetto il mio avvocato. Ammanettato a questo tavolo. Lo specchio. iuuuhuuu guardate che lo so che siete lì dietro, la guardo la tv, sapete? Si apre la porta. Marie?… no… Mi si siede di fronte. Non ho coraggio di guardarla, voglio il mio avvocato, ho chiesto il mio avvocato…
“Sono io il tuo avvocato”
“Cosa?”
e per la prima volta la guardo davvero. Ripercorro ogni istante. Capisco ogni cosa. Piango tutto il pianto che non ho potuto versare nella mia infanzia e negli anni a venire. Capisco che lo sguardo di disgusto non era verso di me, ma verso mio padre. Per me c’è sempre stata solo pietà.
“Non ho potuto provare la gioia della maternità” mi dice “non potevo sopportare l’inettitudine con cui i tuoi ti stavano insegnando, o meglio non ti stavano insegnando a diventare un uomo. Mi dicevo che se quella fortuna fosse capitata a me, io ti avrei dato tutto. Non i soldi. Ma dedizione, attenzione, amore. Se sono qui è perché l’ho visto con i miei occhi che tu non hai avuto nulla di tutto questo. Se non ti ho promosso con un diciotto è perché io in te ho sempre creduto… Non avevo capito quanto male ti avessero fatto fino al giorno in cui hai… hai cercato di uccidermi”.
“…Io…”
“Ascolta, possiamo tentare la semi-infermità. Passerai un bel po’ di tempo qui, ma uscirai in tempo per rifarti una vita. Per viverne una degna di questo nome intendo. Nel mentre sei qui, hai tanto tempo per studiare, quello che vuoi, se non ami la Giurisprudenza puoi fare altro… predisporrò delle sedute di psicanalisi… ”
I suoi occhi mentre parla sono bellissimi. Lucidi. Ha lo sguardo risoluto e tenero. Lo sguardo e la dignità  di una madre. Mai pentimento è stato più reale.
“…Io…”
“Lo so. Spesso non è come sembra”.